Sabato 18 Maggio 2024

17.03.05 Klagenfurt, processo eutanasia, Pachner, Scellander, guardia, NiedermoserTra il 1939 e il 1945, mentre era in corso la guerra, non meno di 1350 pazienti dell’ospedale di Klagenfurt (il loro numero può essere soltanto stimato) furono assassinati o trasferiti al centro di sterminio di Hartheim, presso Linz, dove ebbero la stessa sorte. È quanto emerge dal libro “NS-Psychiatrie in Klagenfurt” (“Psichiatria nazionalsocialista a Klagenfurt”) uscito in questi giorni e frutto di un progetto di ricerca dell’Università di medicina di Graz durato due anni.

Oggetto dello studio era il programma di eutanasia messo in atto dal regime nazista nell’ospedale psichiatrico di Klagenfurt. Alla base dell’operazione vi era la legge per la prevenzione delle malattie ereditarie nella prole, premessa per la politica eugenetica del nazismo, “con cui veniva data una legittimazione ufficiale – scrive nel libro Martina Lang, una delle ricercatrici – alla persecuzione, alla mutilazione e all’annientamento  delle cosiddette vite non degne di essere vissute”.

Il luogo dove il programma trovava esecuzione era l’ospedale del capoluogo carinziano, ma dal 1942 ad esso davano il loro contributo gli uffici medici del Land, gli ufficiali sanitari e persino i medici operanti sul territorio, chiamati tutti a far parte integrante di “un sistema di vigilanza, controllo e sterminio”, a cui le vittime designate difficilmente riuscivano a sottrarsi. Dal 1940, attraverso un censimento genetico, si era giunti a un controllo pressoché totale della popolazione.

Ma l’aspetto genetico del programma di sterminio fu soltanto uno dei fattori, per cui si poteva finire nella rete dei controlli. Spesso subentravano anche fattori sociali. In molti casi – scrive Lang – il criterio dell’inidoneità al lavoro (a prescindere da tare ereditarie) poteva bastare da solo per un ricovero coatto.

Il programma di eutanasia si può dividere in due fasi. Inizialmente non furono i sanitari di Klagenfurt a occuparsene direttamente. Dal 29 giugno 1940 al 7 luglio 1941 744 persone furono trasferite dalla Carinzia al centro di Hartheim (Alta Austria). Il “lavoro” di eliminazione fu eseguito in quella sede. In seguito, come scrive nel libro un’altra ricercatrice, Daniela Fürstauer, “il compito di eliminare la zavorra” fu decentrato da Hartheim ai singoli manicomi del Reich, tra cui quello di Klagenfurt.

Questo accadde dal 1942 in poi. Scrive Wolfgang Freidl, un altro degli autori del libro: “È spaventoso che il personale responsabile dell’assistenza ai malati non soltanto accettò e tollerò gli assassini, ma vi concorse di buon grado”. Nel processo celebrato nel 1946 contro il primario dell’ospedale psichiatrico, Franz Niedermoser, e 12 infermiere, gli imputati ammisero di essere stati consapevoli che l’eutanasia era un delitto, ma sostennero di non aver avuto il coraggio di opporsi a ciò che veniva loro ordinato.

Questa tesi, tuttavia, è contestata dagli autori del libro. Scrive infatti Freidl: “Klagenfurt si è presentata come molto collaborativa. Infermieri e assistenti hanno provveduto a interventi di eutanasia talvolta di propria iniziativa, senza che fosse impartito loro uno specifico incarico. Chi dava disturbo al personale diventava vittima, chi aveva voglia di lavorare ed era in buona salute aveva maggiori probabilità di sopravvivere”.

Di norma, ma non sempre, il primario Niedermoser inviava un questionario dei pazienti a Berlino e dalla capitale giungeva in risposta l’incarico di eliminarli. I pazienti predestinati venivano prima lavati, poi trattati con sostanze soporifere e quindi uccisi con iniezioni o farmaci letali. Benché ci fosse un’autorizzazione del Führer per l’eutanasia, gli omicidi venivano praticati con discrezione, per evitare che ad essi fosse data pubblicità. Una congiura del riserbo, a cui il personale dell’ospedale partecipava senza riserve.

Nel processo celebrato dopo la guerra, il primario Franz Niedermoser fu condannato a morte e impiccato il 16 novembre 1946. La capo infermiera Antonie Pachner fu pure condannata a morte, ma la sentenza fu poi commutata in 20 anni di reclusione; morì in carcere nel 1951. Il capo degli assistenti sanitari Eduard Brandstätter, condannato a morte, si tolse la vita prima dell’esecuzione della sentenza. La capo infermiera Ottilie Schellander fu condannata a morte, pena commutata poi in ergastolo, e graziata nel 1955 (l’anno non è casuale: nel 1955 cessa l’occupazione alleata dell’Austria, che riacquista la sua sovranità e si dimostra subito clemente nei confronti dei suoi cittadini macchiatisi di crimini nazisti). Altre quattro infermiere, condannate a pene detentive più o meno lunghe, ottennero anch’esse anticipatamente la libertà. Tutti gli altri imputati al processo furono prosciolti. Così, per l’uccisione di 1350 vite umane “non degne di essere vissute”, nell’Austria uscita dal nazismo uno solo pagò con la vita e pochi altri se la cavarono con meno di dieci anni di carcere.

 

NELLA FOTO, alcuni degli imputati al processo del 1946, a Klagenfurt: da sinistra, Antonie Pachner, Ottilie Schellander, una guardia e il primario Franz Niedermoser.

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