Sabato 18 Maggio 2024

15.04.09 057 Sigmundsherberg, cimitero di guerra italiano“Cari bambini, che tanto li penso, vi mando i dolci e caldi bacioni del papà, che è tanto lontano”. Così scriveva alla famiglia nel 1916, con incerta sintassi, Pietro Pelus di Pradolino (Pasiano di Pordenone), catturato in guerra dagli austriaci e rinchiuso nel campo di prigionia di Sigmundsherberg, una località della Bassa Austria a un centinaio di chilometri da Vienna, non lontana oggi dal confine ceco.

Quel campo era in grado di ospitare 70.000 prigionieri di guerra, ma nei momenti più caldi del conflitto dovette accoglierne fino a 123.000, in condizioni di vita disumane. La gran parte di essi proveniva dal fronte italiano. Uno era appunto Pietro Pelus. Nell’ultima cartolina ai familiari, spedita il 25 agosto 1918, scriveva alla moglie: “…la mia salute va sempre occupando destino, ma spero che voialtri starete bene… procura di pensare che al mio ritorno farò bene, se vengo. Ma temo. Bacioni”.

Se vengo, ma temo. Pietro Pelus non era – come si suole dire – uomo di lettere, ma intelligente quanto basta per comprendere la situazione. Le sue parole sono commoventi, nella loro semplicità, e quasi premonitrici, nella loro involontaria contorsione. Pietro Pelus non farà ritorno a Pradolino, come migliaia di altri compagni di prigionia, uccisi dalle malattie e dagli stenti. Il campo di Sigmundsherberg è diventato ora un grande cimitero, che la Croce nera austriaca e la gente del luogo curano amorevolmente, rasandone periodicamente l’erba, ripulendone le croci e le lapidi, deponendo nelle ricorrenze importanti corone di fiori, con nastri che portano i colori della bandiera austriaca, anche se quei caduti non sono i loro caduti.

IMG_7435Cinquecento di quei morti, tuttavia, non riposano lì, ma nell’immenso “Zentralfriedhof”, il cimitero centrale di Vienna. Le loro tombe sono raccolte nel campo 68A, accanto a quelle dei soldati russi e romeni. Sono sepolti lì, perché sono morti mentre si trovavano “in trasferta” nella capitale dell’impero. Erano stati distolti dal campo Sigmundsherberg, assieme ad altri 4.000 connazionali, per essere impiegati nella costruzione di un viadotto ferroviario, che doveva collegare la Nordwestbahn alla Nordbahn, un raccordo tra la ferrovia nord-occidentale e la ferrovia nord, per agevolare il transito dei treni diretti al fronte orientale carichi di materiale bellico.

L’infrastruttura, lunga 4 chilometri con 220 arcate, fu realizzata in tempi accelerati nel 1916 e la gente del quartiere periferico di Florisdorf che ne veniva attraversato la chiamò subito “Italienerschleife”, la “bretella degli italiani”, perché italiane erano le braccia che l’avevano costruita.

A 100 anni dall’entrata in funzione di quel viadotto l’Austria vuole rendere omaggio al tributo di lavoro e di sangue dei loro ex nemici. Lo fa tramite l’associazione del Museo ferroviario di Strasshof che, insieme con altre istituzioni (tra cui la Österreichisch-italienische Gesellschaft), ha organizzato per il 28 agosto un viaggio speciale in treno da Vienna (percorrendo la “Italienerschleife”) fino a Sigmundsherberg.

16.08.23 Floridsdorf, Italienerschleife (bretella degli italiani) - CopiaNon è la prima volta che l’Austria ricorda il lavoro dei prigionieri italiani. Lo aveva già fatto nel 1999. Il viadotto di Florisdorf era stato distrutto nel 1944 dai bombardamenti anglo-americani e non più ricostruito nel dopoguerra, perché non necessario per il traffico ferroviario di allora. La caduta della cortina di ferro e lo sviluppo di più intensi rapporti con l’Est Europa aveva poi reso di nuovo interessante quel raccordo, di cui erano rimaste le macerie. Così nel 1999 era stato ricostruito come lo avevano fatto gli italiani nel 1916. Su una delle arcate, quella che scavalca la Siemensstrasse, era stata apposta una scultura dell’artista austriaco (ma dal cognome italiano) Wander Bertoni, intitolata “Il ponte delle lacrime”, in ricordo delle sofferenze di chi l’aveva costruito.

In quell’occasione gli amministratori locali di Florisdorf, la Österreichisch-italienische Gesellschaft e le Ferrovie austriache condussero una ricerca in Italia, per rintracciare i discendenti dei prigionieri che avevano concorso a realizzare la bretella. Ne individuarono un’ottantina (tra cui anche il figlio ottuagenario di uno dei caduti, Giuseppe Dossi, di Moimacco) e li invitarono a Vienna, per assistere all’inaugurazione del viadotto ricostruito e per accompagnarli in visita al campo di Sigmundsherberg e al cimitero centrale di Vienna. Fu un evento di intensa commozione, perché nessuno di essi sapeva fino ad allora che fine avevano fatto i loro progenitori; sapevano soltanto che erano deceduti in prigionia.

Tra pochi giorni, nel centenario della costruzione della “bretella degli italiani”, l’Austria rinnoverà il ricordo dei nostri connazionali caduti. Un modo anche questo per riflettere sulla Prima guerra mondiale, senza retorica e senza rimpianti nazionalisti. Quasi a voler dire: abbiamo capito la lezione, i vostri morti sono anche nostri morti.

 

NELLE TRE FOTO, dall’alto al basso, il campo di prigionia di Sigmundsherberg, le tombe dei soldati italiani nel cimitero centrale di Vienna, il viadotto ferroviario di Florisdorf, come si presentava dopo i bombardamenti del 1944.

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