Sabato 18 Maggio 2024

Anche in quest’ultima domenica di giugno si è ripetuto l’annuale pellegrinaggio da Forni Avoltri al santuario di Maria Luggau, nella Lesachtal, in Carinzia. Non è impresa da poco e non è per tutti, perché solo il cammino di andata, con lo scavalcamento dello spartiacque carnico, richiede 7 ore. E poi bisogna mettere in conto il ritorno.

Il pellegrinaggio che parte da Forni Avoltri non è il solo, ma probabilmente il primo dell’anno, almeno dall’Italia. Molto frequentato, in settembre, quello che prende il via da Sappada. E poi ce ne sono altri da Sauris, da Socchieve, addirittura da Sesto in val Pusteria e da Pieve di Cadore. Lungo questi itinerari di devozione mariana sono state erette nel tempo edicole con l’effigie della Madonna o cappelle, che chi frequenta le Alpi Carniche avrà probabilmente incontrato, forse senza comprenderne la ragione. Che ci fa l’immagine della Madonna di Luggau al passo Siera o nella val Sesis, così distanti dalla Lesachtal?

Le origini del santuario di Maria Luggau e i miracoli ad esso attribuiti sono stati trattati in una relazione che lo storico Silvano Cavazza, già docente all’Università di Trieste (ma prima vecchio compagno di classe al liceo classico di Gorizia), presentò al convegno “Santuari di confine” (Gorizia-Nova Gorica, 7-8 ottobre 2004), ma mai pubblicata. Un testo di grande interesse, che pubblichiamo oggi in questo blog con il consenso dell’autore. La relazione prende lo spunto dal pellegrinaggio di Sappada, che si effettua nella seconda metà di settembre (e non di Forni Avoltri), perché il convegno si tenne a settembre di quell’anno.

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UNA TRADIZIONE RELIGIOSA MILLENARIA

Il 13.01.07 02 Pellegrinaggio al Santuario di Maria Luggau - Copia18 e 19 settembre, pochi giorni fa, gli abitanti di Sappada hanno celebrato i duecento anni del pellegrinaggio annuale al santuario della Madonna Addolorata di Maria Luggau in Carinzia. Circa 700 fedeli hanno affrontato la ripida ascesa del monte Peralba per raggiungere a piedi la valle della Gail, al di là dello spartiacque alpino. Tra giugno e settembre altre comunità della Carnia, del Cadore e della Val Pusteria (Sauris, Socchieve, Forni di Sopra, Pieve del Cadore, Sesto) compiono analoghi pellegrinaggi, forse addirittura da epoche ancora  precedenti. In Austria i fedeli di Oberdrauburg nell’Osttirol si recano annualmente a Maria Luggau dal 1747. Il pellegrinaggio è tradizionale anche tra la popolazione slovena della Carinzia, tanto che i padri serviti del santuario amministrano i sacramenti nelle tre lingue, tedesco, italiano e sloveno. Siamo dunque in pieno nella tipologia dei santuari di confine che è l’argomento di questo convegno.

I confini rimangono però una realtà difficile da definire. Sono convinto che chi ci abita a ridosso, da una vita, ne abbia una percezione diversa da chi risiede a Parigi, a Milano, o anche a Udine. La Lesachtal, dove sorge Maria Luggau, ossia la parte alta della valle del fiume Gail (affluente della Drava), è una valle isolata, lunga e stretta, chiusa a sud dalla cresta carnica e a nord dalle Dolomiti di Lienz: gli unici sbocchi sono Sillian e San Candido verso il Tirolo, Mauthen verso la Carinzia e, attraverso il passo di Monte Croce Carnico, verso il Friuli. La Lesachtal però è unita al Comelico e all’alta Carnia da una fitta serie di sentieri di montagna, utilizzati da secoli soprattutto per il commercio del legname, una materia prima indispensabile alla repubblica di Venezia. C’è  inoltre un altro legame, assai più antico e profondo: la valle della Gail, come il Cadore e il Friuli, appartenne al patriarcato di Aquileia; e poi, per quarant’anni, dal 1751 al 1791, all’arcidiocesi di Gorizia, dopo la soppressione del patriarcato. Tutti questi territori hanno dunque una tradizione religiosa comune, durata all’incirca mille anni, per quanto a essa si siano sovrapposte divisioni di lingua e di appartenenza politica.

 

MIRACOLI TRA RIFORMA E CONTRORIFORMA

Per esaminare le vicende di Maria Luggau fino alla seconda metà del Settecento rappresentano una guida preziosa due “Mirakelbücher” (“Libri dei miracoli”) a stampa, in tedesco, apparsi anonimi rispettivamente nel 1731 e nel 1760 [: Der vollkommene Waitzenacker (Weizenacker) welchen die schmertzhaffte Mutter Gottes anno 1513 in dem Thal Lessach an der Luggau … gesäet hat (etc.), Raab, Streibig 1731 (pp. 206);  Ursprung. Wunder und Gutthaten des weitberühmten Gnaden-Bilds der Schmerzen-Mutter Maria an der Luggau im Lessach … (in) Kärnthen … von einem Priester des Ordens deren Diener U. L. Frauen,  München, Vötter 1760 (pp. 142)].

Gli autori sono due religiosi dei Servi di Maria, come è scritto già nel frontespizio; i luoghi di stampa abbastanza lontani dalla Carinzia: Raab, ovvero Györ in Ungheria, per il volume del 1731; Monaco di Baviera per quello del 1760. Le due opere utilizzano e rielaborano le notizie raccolte dalla tradizione del convento, dove tuttora esiste un copioso archivio. Non si tratta di opere storiche, a parte la narrazione delle origini: i miracoli non sono riportati in ordine cronologico, bensì secondo la loro tipologia (guarigioni, a loro volte distinte per malattia; salvataggi, secondo il pericolo corso, e così via). Nel loro genere si tratta però di testimonianze perfettamente attendibili: nel senso che rispecchiano fedelmente l’immagine che il santuario voleva offrire di sé.

Le origini di Maria Luggau sono del tutto simili a quelle di altri santuari mariani sorti tra la fine del Medioevo e la prima diffusione della Riforma: per esempio, Monte Santo sopra Gorizia. A Luggau non ci fu nemmeno un’apparizione propriamente detta; nel 1513 una contadina di nome Elena, che si era addormentata in un campo di sègala, affaticata per il lavoro, ebbe in sogno una visione: la Madonna le ordinava di fondare una chiesa in quello stesso appezzamento di terreno; Elena, nonostante l’iniziale opposizione dei valligiani, riuscì alla fine a costruire una piccola cappella. L’affluenza dei fedeli dalle località vicine dovette iniziare quasi subito, perché sono registrati un buon numero di miracoli già tra il 1518 e il 1523, per persone provenienti da una zona che va da Dobbiaco, a ovest, a Tarvisio a est, in pratica i due sbocchi estremi della valle della Gail. Nel 1520 è ricordato come beneficiato un abitante di “Pladen, venetianischen Gebiet”, ossia Sappada, in territorio veneziano. Un miracolo ricorrente in questa prima fase è la guarigione di ferite riportante in guerra: questo non può che far pensare alle battaglie combattute nella pianura veneta nel secondo decennio del Cinquecento, tra imperiali e veneziani.

Dal 1524 al 1639 le vicende del santuario di Maria Luggau furono collegate con quelle dei conti di Salamanca. Ferdinando I aveva infatti concesso in feudo la contea di Ortenburg, nelle cui pertinenze era compresa la Lesachtal, a Gabriel de Salamanca, lo spagnolo che fu a capo della sua tesoreria. Negli anni Trenta del Cinquecento questi, che aveva preso Spittàl come sua residenza, trasformò l’iniziale cappelletta di Maria Luggau in una vera e propria chiesa, opera dell’architetto tirolese Bartholomäus Vierthaler. In realtà la protezione del potente personaggio (che fino alla morte nel 1539 fu anche capitano pignoratizio della contea di Gorizia) giovò assai poco alle fortune del santuario. Gabriel de Salamanca fu universalmente inviso per la sua avidità e prepotenza; i suoi figli e nipoti (nonché la numerosa parentela che si era portato dalla Spagna) non furono da meno. La contea di Ortenburg, come il Tirolo e la Carinzia, conobbe la rivolta dei contadini e una forte penetrazione protestante (luterani, ma anche anabattisti), che i figli di Gabriel non seppero contrastare. Nel 1543 gli abitanti di Hermagor, nella valle superiore della Gail, ottennero da Ferdinand de Salamanca la facoltà di avere un predicatore luterano; nel 1566 l’intera vallata fu percorsa da predicatori luterani provenienti da Klagenfurt; intorno al 1590 nella zona venti parrocchie su ventotto erano in mano a preti passati alla Riforma, oppure gravemente sospetti.

Il santuario di Maria Luggau, dopo la sua prima fioritura, era subito entrato in decadenza; i pellegrinaggi dovettero interrompersi ed è significativo che per circa settant’anni non fossero registrati più miracoli. Quando nel novembre del 1594 il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro visitò la località, trovò la chiesa trascurata; la convocazione del clero della valle che egli vi aveva disposto andò praticamente deserta. La visita del Barbaro ebbe tuttavia importanti conseguenze, perché diede un impulso decisivo all’opera di restaurazione cattolica promossa dal conte Hans Georg di Salamanca-Ortenburg, che trovò il suo centro proprio in Maria Luggau. La minuscola località  (16 famiglie in tutto) nel 1594 fu elevata a parrocchia e affidata ai francescani tirolesi. Riprese l’afflusso dei fedeli: in un primo tempo forse più dall’Italia e dal Tirolo che dalla Carinzia. Puntualmente i “Mirakelbücher” settecenteschi registrano il verificarsi di nuovi miracoli.

     

LA RESURREZIONE DEI BAMBINI NON BATTEZZATI

La fortuna di Maria Luggau in questo periodo è essenzialmente attestata da un particolare miracolo, l’unico che compaia in fonti diverse da quelle legate alla tradizione del santuario: la resurrezione di bambini morti senza battesimo, giusto per il tempo necessario all’amministrazione del sacramento. Si tratta del miracolo à répit, già noto alla fine del Medioevo nella fascia più orientale dei paesi di lingua francese, dalle Fiandre alla Valle d’Aosta. A Luggau, se dobbiamo prestar fede al “Mirakelbuch” del 1731, esso si era verificato con una certa frequenza già nel periodo delle origini (sei casi sono registrati dal 1518 al 1521), per riprendere nel 1593-1594. In questa seconda fase entrambi i  Mirakelbücher”  mettono in evidenza un caso proveniente dall’Italia.

Traduco dal libro del 1731: “ Nel Cadore, in Italia (“zu Cadobar in Wälschland”) la moglie di Domenico Missier aveva dato alla luce un bambino nato morto, che così non ricevette il battesimo e fu messo sottoterra senza alcun conforto. Da quando fu sepolto, il padre e la madre passarono sette notti senza requie, finché non portarono il bambino al luogo delle grazie di Luggau, offrendolo alla Madonna Addolorata sul suo santo altare. Allora l’infante aprì gli occhietti chiusi, soffiò dalla bocca e cominciò a sudare. Sorse un gran giubilo tra il popolo presente lì convenuto e al bambino gioiosamente richiamato in vita il reverendissimo padre Jonas Zwik dell’ordine di san Francesco aprì le porte del cielo con la santa acqua del battesimo. Il 21 settembre 1594”.

Di resurrezioni temporanee in quegli anni dovettero avvenirne molte, se già all’inizio del 1597 il patriarca Francesco Barbaro ne scrisse entusiasta a Roma: era cosa “affermata universalmente da tutti” che “nascendo qualche creatura la quale mora senza battesimo, se la viene portata in quella chiesa e posta sopra l’altare della Beata Vergine, che dà segno di vita, e con moto di membri et alcune volte anche orinando apre gli occhi intanto, che se gli può dar il battesimo, e poi ritorna a morire”.

Francesco Barbaro non era certo un prelato ben disposto verso le credenze popolari. In Friuli proibì più volte la venerazione di madonne piangenti e di crocefissi sanguinanti. Ma davanti questo miracolo di Maria Luggau non mostrò nessuna esitazione. Approvò l’appoggio che il conte di Ortenburg aveva dato ai pellegrinaggi; si compiacque della “grandissima devotione” che ogni giorno aumentava e del concorso dei popoli. Il fatto era talmente evidente che neanche gli eretici osavano negarlo. E soggiunse: “Anzi, diversi villaggi, che sono ivi circonvicini e che erano avanti infetti d’heresia, mirabilmente si vanno purgando”.

Si ha l’impressione che nella prima metà del Seicento il santuario carinziano fosse noto in Italia essenzialmente per questo particolare miracolo, anche a livello “dotto”. Ne parlò, per esempio, il medico Eustachio Rudio, professore all’università di Padova. Nel  1643 il miracolo venne inserito dal gesuita Silvestro Pietrasanta nella sua grande “Thaumasia verae religionis contra perfidiam sectarum”, pubblicata a Roma, in evidente funzione antiprotestante. Il gesuita, autore tra l’altro di una biografia agiografica di Roberto Bellarmino, non si accontentò delle notizie raccolte nella letteratura precedente; si rivolse per maggiori informazioni a un confratello italiano che si era trasferito a Innsbruck al seguito di Anna de’ Medici, moglie dell’arciduca Ferdinando Carlo. Ebbe così ulteriori testimonianze, che confermarono due aspetti caratteristici del miracolo di Luggau: la risurrezione temporanea degli infanti fino all’amministrazione del battesimo (“donec lustrali fonte abluantur”) e la trascrizione dell’evento in un apposito registro, con i nomi di quanti vi avevano assistito.

     

TANTE PICCOLE LUGGAU, IDENTICO MIRACOLO

Più che 13.01.07 05 Santuario di Maria Luggau - Copiadalle attestazioni erudite, la fama del miracolo di Luggau è testimoniata in Italia dalla nascita spontanea di piccoli luoghi di culto che garantivano questa stessa grazia, in genere fuori da ogni approvazione o controllo ecclesiastico. Nel Seicento, nella zona interessata ai pellegrinaggi al santuario carinziano, sono state ritrovate almeno tre località alle quali i fedeli convenivano per il miracolo. Certe volte non c’era nemmeno bisogno di una chiesa. Nel 1614 a Raveo, nel Canale di Gorto in Carnia, le resurrezioni avvenivano in aperta campagna, davanti a un capitello (un’ancona) con l’effige della Madonna. A Trava, sempre nel Canale di Gorto (ma sul versante nord), dal capitello si era passati nel 1659 alla costruzione di una piccola chiesa.

Ad Alano di Piave nel 1674 era venerata per questa grazia un’immagine collocata in una cappella campestre. Probabilmente ci furono altri luoghi di culto deputati per questo miracolo dalla devozione popolare. A riprova della sua diffusione si può ricordare che esso venne chiesto (e ottenuto) anche attraverso l’intercessione di Marco d’Aviano, già in vita venerato come infallibile taumaturgo: questo nel 1686 a Schio, ai piedi delle Alpi, ma già nel Veneto centrale.

Bisogna dire però che queste filiazioni friulane e venete del miracolo di Luggau non furono ben viste dalle autorità ecclesiastiche. La curia udinese proibì subito la venerazione della Madonna di Raveo, mentre era ancora in carica il patriarca Barbaro, che pure aveva celebrato il miracolo carinziano; san Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova, con metodo ancor più spiccio fece abbattere la cappella di Alano di Piave nel corso di una visita pastorale.

 

INTERVIENE IL SANT’UFFIZIO

Dei miracoli di Trava siamo informati quasi unicamente dall’inchiesta condotta tra il 1681 e il 1687 dal francescano Antonio Dall’Occhio, inquisitore di Aquileia. Egli accertò che da qualche anno i fedeli friulani e cadorini non si recavano più a Luggau, ma affluivano in gran numero alla piccola chiesa del Canal di Gorto, ottenendo tutti la resurrezione temporanea degli infanti, che venivano poi sepolti dietro alla chiesa. L’inquisitore fece anche celebrare una decina di processi nei riguardi di genitori che venivano sorpresi a San Daniele di ritorno dal santuario, condannandoli per “abuso di sacramento”.

In effetti, a cominciare dall’ultimo scorcio del Seicento, questo particolare miracolo, che per tutto il secolo era stato tenuto in grande considerazione nella letteratura devozionale e teologica in Francia e nella parte cattolica della Germania e della Svizzera, cominciò a essere apertamente condannato, prima dagli scrittori di ispirazione giansenista, poi dai vescovi e infine dalle stesse autorità romane. In Francia vari sinodi diocesani si pronunciarono contro di esso; intervenne poi la Congregazione del Sant’Uffizio, con sei diverse sentenze tra il 1729 e il 1751; per finire papa Benedetto XIV nel 1755, nella grande raccolta di istruzioni “De synodo dioecesana”, proibì come abusiva la pratica di ricorrere a determinati santuari nei casi di infanti morti senza battesimo. Avevano in particolare suscitato allarme e riprovazione i miracoli che si dicevano avvenuti nell’antico convento dei Premonstratensi di Ursberg, in Svevia. Qui le resurrezioni davanti a un gruppo ligneo raffigurante la Madonna ai piedi della Croce erano cominciate nel 1686; i monaci ne avevano registrato più di 24.000 già nel 1720, in pratica contraddicendo il concetto stesso di miracolo.

 

IL SANTUARIO PASSA DI MANO

Torniamo a Maria Luggau e ai suoi “Mirakelbücher”. Nel 1635 il santuario era passato dai Francescani ai Serviti, per intervento di Claudia de’ Medici, vedova dell’arciduca Leopoldo d’Asburgo e reggente del Tirolo. Negli anni seguenti la chiesa venne radicalmente restaurata; il vescovo di Bressanone fornì a sue spese le nuove campane. Inoltre nel 1639 si estinsero i Salamanca-Ortenburg e la contea fu venduta ai Widmann, una famiglia di ricchi commercianti di Villach; nel 1662 infine essa passò ai principi Porcìa, di origine friulana, che per averla sborsarono a Leopoldo I 300.000 fiorini.

I Serviti erano espressamente dedicati al culto mariano; nella loro stessa provincia austriaca sorgeva il santuario di Weissenstein/Pietralba, nella diocesi di Trento, di recente fondazione (1561), egualmente noto intorno alla metà del Seicento per le resurrezioni temporanee, delle quali esiste addirittura un riconoscimento da parte delle autorità diocesane – probabilmente l’unico di cui si sia a conoscenza, almeno per l’epoca moderna. Luggau continuò così a essere un luogo di pellegrinaggio per grazie di ogni genere: forse con qualche eccesso, se il padre provinciale dovette intervenire abbastanza presto, nel 1658, per mettere freno agli abusi che si commettevano.

Si può supporre che i provvedimenti restrittivi abbiano riguardato soprattutto il battesimo degli infanti morti: questo spiegherebbe la grande fortuna acquistata, proprio nello stesso giro di anni, dal santuario di Trava. I fedeli del versante italiano delle Alpi potrebbero essersi rivolti a un luogo di culto dove la loro richiesta fosse accolta senza tante obiezioni d’ordine teologico: a Trava in effetti il cappellano della chiesa non impartiva direttamente il battesimo e si limitava a celebrare una messa di ringraziamento. Erano le donne del luogo a verificare i segni della resurrezione e ad amministrare il sacramento, mentre il notaio del minuscolo villaggio rilasciava un attestato su quanto era avvenuto (resurrezione, battesimo, sepoltura in terra consacrata).

 

UNA MAGNIFICA MACCHINA DEVOZIONALE

Il santuario di Maria Luggau era però una magnifica macchina devozionale che sapeva adattarsi ai tempi e alle esigenze nuove. Basta vedere l’interno della chiesa, come fu ristrutturata nel corso del Settecento (dopo un incendio) in forme barocche, con grande impiego di ori e di stucchi, che tuttavia hanno per centro il modestissimo “Vesperbild” di legno, fatto intagliare dalla contadina Elena. Anche i due “Mirakelbücher” testimoniano questa capacità di adattamento, sia per quello che scrivono, sia anche per quello che passano sotto silenzio. Nel loro genere sono opere tardive, perché si riallacciano a una tradizione tedesca molto forte nel Seicento, ma ormai in netto declino nel Settecento, almeno a livello dotto. I due libri, composti a distanza di trent’anni sulla base dello stesso materiale, sono abbastanza diversi tra di loro. Il più antico, dedicato agli Stati Provinciali della Carinzia, vuole essere in primo luogo un’opera di spiritualità, pur conservando lo schema tradizionale dei “Mirakelbücher”. Per le diverse categorie di miracoli esso offre una campionatura sobria (non più di quindici casi ciascuna), sempre accompagnata da una riflessione su testi biblici o dei padri della chiesa: per esempio, l’episodio di Domenico Missier riferito in precedenza rinvia alla resurrezione di Lazzaro e alla fede di Marta e Maria, secondo Giovanni, 11, 20-44. Il libro insiste in particolare sulle guarigioni operate dall’immagine della Madonna Addolorata, a favore di fedeli delle più diverse provenienze e condizioni. Un capitolo è dedicato ai “bambini morti richiamati in vita da Maria”, con miracoli riferiti in gran parte al Cinquecento, 9 su 12; quello più recente che viene ricordato è del 1671.

Il testo del 1760 ha dimensioni minori, ma presenta un numero molto più grande di miracoli (le guarigioni descritte, per esempio, sono 140), eliminando per contro ogni approfondimento spirituale. Per molti aspetti si può definire un libro di propaganda. È dedicato al signore di Ortenburg dell’epoca, il principe Alfonso Gabriele di Porcìa; le grazie ottenute da personaggi ragguardevoli della nobiltà sono elencate con particolare enfasi. Allo stesso tempo però l’intercessione della Madonna è mostrata presente in tutte le circostanze della vita umana, anche in quelle più comuni: tanto per fare un esempio, nel 1745 un contadino di Sappada aveva raggiunto il santuario d’inverno, in mezzo la neve, perché il bue gli era scappato. Le sue preghiere vennero esaudite e l’animale ritornò alla stalla.

Un atteggiamento più accorto si può vedere anche nella trattazione delle resurrezioni, posta all’inizio del libro, al secondo capitolo, in un contesto che riguarda essenzialmente la nascita (il primo capitolo parla di sterilità risanata e di parti). Una novità è la resurrezione vera e propria di una bambina di sette anni, rimasta fredda e senza segni di vita per un’ora intera. Si tratta di una vicenda complicata, di cui fu protagonista nel 1731 in Ungheria la figlia di Giovanni Battista Buiatti, mercante originario di Rigolato, in Carnia, raccontata fin nei minimi particolari, sulla base della relazione che il padre aveva poi inviato al santuario, con tanto di sigillo e convalida dei testimoni.

In un altro caso, nel 1744 – e dunque non lontano dalla pubblicazione del libro – la resurrezione di un neonato prematuro avvenne nella sua stessa casa, in Tirolo; il bambino visse per un’ora e venne regolarmente battezzato. La madre lo riferì quattro anni dopo, quando poté finalmente compiere il pellegrinaggio al santuario e sciogliere il suo voto. Gli altri 25 miracoli che sono riportati seguono invece lo schema tradizionale. Sembra evidente che l’autore abbia inserito le varianti per rispondere a due delle principali obiezioni che erano state mosse contro la veridicità del miracolo: perché i resuscitati tornavano sempre a morire? Perché una simile grazia si otteneva solo portando i corpi a determinati santuari?

 

LOTTA CONTRO GLI ERETICI MA SENZA MAI NOMINARLI

Il “Mirakelbuch”  del 1760 non ricorda in modo esplicito il grande cambiamento intervenuto appena dieci anni prima nella situazione religiosa della zona. Il patriarcato di Aquileia era stato diviso e ora la Lesachtal, con l’intera Carinzia a sud della Drava, apparteneva alla neo costituita arcidiocesi di Gorizia. Era praticamente dai tempi di Francesco Barbaro che la zona non aveva un proprio pastore, perché i governi asburgici per oltre 130 anni avevano di fatto impedito l’esercizio diretto dell’autorità patriarcale nei territori a parte Imperii. Ai fedeli che accorrevano al santuario dal versante italiano questo non era importato più di tanto, e probabilmente nemmeno lo sapevano. Ma a Udine la regione era diventata così lontana ed estranea, che – per esempio – nel 1681 l’inquisitore Dall’Occhio, quando sentì parlare dei miracoli di Luggau, chiese all’arcidiacono della Carnia a quale diocesi appartenesse la località, non immaginando nemmeno che essa fosse, almeno formalmente, compresa nella sua giurisdizione.

Il nuovo arcivescovo di Gorizia Carlo Michele d’Attems dovette subito rendersi conto che in Carinzia, e nella valle della Gail in particolare, c’era ancora una forte presenza luterana, sia pure nella forma di un cripto-protestantesimo dai contorni incerti e privo di strutture pubbliche. Nella Obergailtal, secondo le autorità politiche, in molti villaggi i cattolici erano solo una minoranza, come a Stranig  e a Rattendorf, a meno di 50 chilometri a valle del santuario. Solo a ovest di Mauthen la situazione cambiava: per oltre un secolo e mezzo Maria Luggau aveva rappresentato il baluardo del cattolicesimo nella regione.

Nelle missioni che furono organizzate a partire dal 1752 ci furono spesso frati serviti del convento. In esso nel 1762 fu inoltre istituita una scuola di teologia polemica, accanto a quella di teologia morale già esistente. Nella prospettiva di una restaurazione cattolica si comprende assai meglio il carattere chiamiamolo “arcaico” dei due “Mirakelbücher” di Luggau, in particolare di quello dei 1760. Essi esprimono una situazione che nel Settecento si può dire superata per buona parte dell’Europa occidentale, vale a dire una consistente presenza di protestanti in territorio cattolico. I due libri non parlano mai esplicitamente di eretici, secondo la regola per cui è meglio combattere l’avversario senza nominarlo: ma appartengono a pieno diritto alla tradizione della propaganda cattolica della Controriforma. Trovano una precisa corrispondenza, anche dal punto di vista cronologico, con due opere del 1709 e del 1749 che descrivono i miracoli di san Leonzio di Muri, in Argovia, nella Svizzera tedesca più prossima ai cantoni protestanti. L’ordine e la lista dei miracoli sono sorprendentemente analoghi, comprese le resurrezioni di bambini morti senza battesimo.

 

PER DUE SECOLI ANTEMURALE DEL CATTOLICESIMO

Per concludere, vorrei tornare al concetto di confine al quale accennavo all’inizio. Per i secoli che abbiamo preso in esame è difficile pensare che quanti arrivavano a Maria Luggau dall’Italia la ritenessero una terra straniera. Il confine politico, e anche quello linguistico (quando c’era), passavano sicuramente in secondo piano davanti a più profonde identità sul piano religioso e nello stile stesso di vita. Le ultime considerazioni che abbiamo fatto sulla presenza protestante fanno piuttosto intravedere confini diversi, quelli per cui il santuario poté ergersi per due secoli ad antemurale del cattolicesimo di fronte ai suoi avversari.

Silvano Cavazza

 

NELLE FOTO, il corteo dei pellegrini in cammino verso la Lesachtal e il santuario di Maria Luggau.

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