Domenica 19 Maggio 2024

13.01.27 Miloš ZemanKarel Schwarzenberg, ministro degli esteri in carica della Cechia e candidato conservatore alla presidenza della Repubblica, non ce l’ha fatta. Aveva superato il primo turno di voto, due settimane fa, qualificandosi per il ballottaggio assieme al rivale socialdemocratico Miloš Zeman, da cui lo separava meno di un punto percentuale. Ma al secondo turno, venerdì e sabato scorsi, il 54,8% dei cechi hanno dato la loro preferenza a Zeman.

 

I resoconti giornalistici spiegano la sconfitta di Schwarzenberg con la sua appartenenza culturale alla nazione tedesca, con l’essere il discendente di uno dei più illustri casati dell’impero absburgico, con l’aver trascorso 40 dei suoi 75 anni della sua vita in Austria (dopo l’avvento del comunismo e fino alla “rivoluzione di velluto” del 1989), con il suo linguaggio ceco corretto, ma desueto, perché quello parlato nella prima metà del secolo scorso, negli anni cioè in cui lui era vissuto, con la sua famiglia, nella natia Boemia. Il presidente uscente, l’euroscettico Václav Klaus, aveva calcato la mano su questi aspetti della biografia del candidato, dichiarando di “non potersi immaginare un presidente che non abbia vissuto l’intera sua vita in Cechia”.

 

È sfuggito ai più un dettaglio, che invece è stato determinante nella sconfitta di Schwarzenberg, quello di aver infranto per la prima volta un tabù nella storia politica postbellica della Cechia, dichiarando l’iniquità dei decreti Beneš. Sono i provvedimenti emanati tra il 1940 e il 1945 da Edvard Beneš, presidente in esilio della Cecoslovacchia occupata dalla Germania, che disponevano l’esproprio dei  beni e l’espulsione indiscriminata dei tedeschi dei Sudeti, considerati tutti collaborazionisti dei nazisti.

 

Per capire di che cosa parliamo, bisogna fare qualche passo indietro, fino agli ultimi decenni dell’impero absburgico (ecco la ragione per cui ce ne occupiamo in questo blog sull’Austria). Nella Boemia e Moravia (allora il nome Cecoslovacchia non era ancora stato inventato) prende piede il nazionalismo slavo, guidato da Tomaš Masaryk, che mira a ottenere per l’area un’autonomia analoga a quella ottenuta nel 1867 dall’Ungheria con l’Ausgleich. Non ci riesce, il sistema absburgico consente tuttavia spazi sempre maggiori alla popolazione boema e morava, che può così dotarsi di una propria università, di scuole di lingua ceca, di un teatro ceco, di un museo nazionale ceco (quello che ancor oggi domina dall’alto piazza San Venceslao).

 

Ma in quell’area che oggi chiamiamo Cechia è presente anche una componente cospicua di lingua tedesca, che conta illustri esponenti, basti pensare a Franz Kafka, Rainer Maria Rilke, Oskar Kokoschka. Anche il casato degli Schwarzenberg, che allora possono ancora fregiarsi del titolo di principi, ne fa parte. Di fronte al crescente espandersi della componente ceca nella cultura, nell’economia, nella politica, quella etnicamente tedesca si sente sempre più penalizzata. Accade un po’ quello che accadrà cento anni dopo nel Sudtirolo, dove la componente italiana, minoritaria, subisce il predominio di quella di lingua tedesca.

 

Si forma così per reazione un nazionalismo tedesco. Non deve stupire, perciò, che il Partito nazista – più precisamente, il “Partito nazionalsocialista dei lavoratori” – non nasca in Germania o in Austria, ma proprio qui, nei Sudeti della futura Cecoslovacchia. Nella primavera del 1938 – vale a dire pochi mesi prima della Conferenza di Monaco, che sancì l’annessione dei Sudeti al Terzo Reich – il Partito nazista della Cechia e il Partito nazionalista, riuniti nel “Partito tedesco dei Sudeti”, ottiene alle elezioni l’85% dei voti della comunità di lingua tedesca. E quando di lì a poco i soldati del Reich entrano marciando nel Paese, vengono accolti trionfalmente come liberatori da questa componente “tedesca”.

 

Alle luce di tali eventi vanno dunque interpretati i decreti del presidente Beneš, che hanno uno scopo punitivo nei confronti dei cittadini cechi di etnia tedesca, considerati tutti collaborazionisti, e risarcitorio nei confronti del resto della popolazione. La conseguenza fu un esodo biblico dei cosiddetti “Sudetendeutsche”, “tedeschi dei Sudeti”, accolti come profughi in Germania, soprattutto in Baviera, ma anche in Austria. Tra i più noti esponenti di questa comunità di esiliati possiamo ricordare l’arcivescovo Christoph Schönborn, primate della Chiesa austriaca, Julius Meinl (quello del caffè), Ferdinand Porsche. Per comprendere le dimensioni del dramma basti pensare alla condizione sofferta dagli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia e poi moltiplicare per dieci. Perché i “Sudetendeutschen” furono tre milioni.

 

Ebbene, Karel Schwarzenberg ha avuto il coraggio di dire ai suoi connazionali cechi che i decreti Beneš non rappresentano “una pagina onorevole” della storia nazionale e che, dal punto di vista odierno, costituiscono “una grave violazione dei diritti dell’uomo”, perché avevano privato dei loro diritti molti tedeschi dei Sudeti che non erano stati nazisti e che si erano dimostrati leali verso lo Stato. Lui stesso e la sua famiglia avevano disconosciuto il nazismo e per questo avevano visto confiscare tutti i loro beni. Dal punto di vista di oggi, il governo di allora, compreso il suo presidente Edvard Beneš, sarebbero finiti davanti alla Corte dell’Aia.

 

Parole dure, che Karel Schwarzenberg avrebbe anche potuto tacere, per non perdere voti. Ma per l’anziano discendente della famiglia principesca dell’impero absburgico la verità è più importante del successo elettorale. Non c’è dunque da stupirsi se abbia perso il confronto con Zema. C’è semmai da stupirsi, e da compiacersi, che nonostante quel che ha detto, ben il 45,2% della popolazione, soprattutto giovanile, abbia votato per lui.

 

Nella foto, Miloš Zeman, vincitore al ballottaggio per l’elezione del presidente della Repubblica ceca.

Lascia un commento