Sabato 18 Maggio 2024

462339Giorno per giorno, in questo blog, abbiamo narrato la storia dell’Austria, di oggi e di ieri, senza quasi mai fare menzione del “Kommunistische Partei Österreich” (Kpö), il Partito comunista austriaco, quasi che non fosse mai esistito. Poi d’un tratto – i lettori se ne saranno accorti – ci è capitato di parlarne per ben due volte nell’arco di un paio settimane, in occasione dello strepitoso successo alle elezioni comunali di Graz (il 30 novembre scorso) e in occasione della morte di Rudolfine Steindling, la sua leggendaria tesoriera (il 16 dicembre).

 

Un ravvedimento tardivo? Non proprio. Il Kpö nell’Austria di oggi conta meno dell’uno per cento e proprio per questa sua insignificante presenza nel panorama politico nazionale il successo conquistato a Graz ci era apparso ed è sensazionale, o quanto meno in controtendenza. Così come ci era apparso sensazionale un personaggio come la Steindling, una donna che per anni aveva amministrato con discrezione un patrimonio di centinaia di milioni di euro per conto di un partito quasi inesistente.

 

Eppure il ruolo del Kpö nella storia dell’Austria non va sottovalutato. È uno dei partiti comunisti più vecchi d’Europa (e quindi del mondo) ed è quello che, pur contando su uno sparuto numero di aderenti, ha pagato il prezzo più alto in vite umane nella resistenza al nazismo. Se nell’Austria del dopoguerra il suo peso politico è andato via via scemando, lo si deve al fatto che gli austriaci hanno subito per dieci anni l’occupazione sovietica e hanno conosciuto, quindi, di persona il “socialismo reale”, probabilmente quello peggiore, perché ha coinciso con gli anni dello stalinismo, dei processi farsa, delle deportazioni, dei gulag, di cui anche molti austriaci furono vittime.

 

Alle prime elezioni libere dopo la caduta del Terzo Reich, nel 1945, nell’Austria occupata dagli Alleati, il Kpö raggiunge il 5,4%. Resterà il suo miglior risultato. Alle successive elezioni, nel 1949, riuscirà a mantenere le posizioni (5,1%), per poi registrare un costante declino. Nel 1956 le prime elezioni dopo la cessazione dell’occupazione alleata e la riacquistata sovranità vedranno ancora i comunisti presenti in Parlamento con il 4,4% (in una lista insieme con l’ala socialista più radicale) e poi basta. Nelle elezioni successive non riusciranno più a raggiungere il 4% (soglia minima per entrare in Parlamento) e dopo il 1966 stenteranno addirittura a raggiungere l’1%. Il risultato più recente, nel 2008, è stato dello 0,76%.

 

Un declino costante e ineluttabile, dovuto certo molto alla decennale presenza sovietica in tutta l’Austria orientale (Vienna, l’intera Bassa Austria, l’intero Burgenland, parte dell’Alta Austria), ma anche al completo asservimento a Mosca dei vertici del partito. Anche il Pci era allineato con Mosca, ma l’atteggiamento filosovietico del Kpö era meno accettabile dalla popolazione austriaca, perché tra le vittime dello stalinismo vi erano stati anche migliaia di cittadini austriaci. Non austriaci “nemici del popolo”, ma austriaci comunisti o comunque vicini all’ideologia marxista. Tra questi, 2000 ebrei, fuggiti dal nazismo che avevano confidato, per loro sventura, di trovare rifugio in Russia. E poi lavoratori comunisti e socialisti emigrati negli anni ’30 del secolo scorso, dopo la fallita rivolta del 1934 contro la dittatura austrofascista di Dolfuß, che nella “patria del comunismo” non avevano trovato l’asilo sperato, ma il carcere e la morte.

 

Su queste vittime del comunismo reale il Kpö ha taciuto per decenni, facendone cenno soltanto nel congresso del 1987. Fino ad allora i comunisti austriaci – i pochi rimasti – si erano adattati a digerire tutto: il patto Hitler-Stalin, i processi farsa di Mosca, le delazioni reciproche per salvare la pelle, la repressione sanguinosa delle rivolte in Ungheria e prima ancora nella Germania dell’Est. Il Kpö era guidato in quegli anni dalla cosiddetta “clique” di Mosca, funzionari che avevano trovato rifugio durante la guerra nel famoso Hotel Lux della capitale sovietica, dove erano stati testimoni diretti della scomparsa di molti loro compagni di altri Paesi europei, sospettati di revisionismo e di non completo allineamento alla linea dettata da Stalin.

 

Tornati a casa, avevano negato l’evidenza della ferocia stalinista. Lo avevano fatto, come risulta dai documenti ufficiali del partito, fino al 1956, cioè fino a poche settimane prima del 20. Congresso del partito comunista sovietico, in cui per la prima volta furono ammessi i crimini compiuti dal regime. Il turbamento nel Kpö fu enorme e indusse un gruppo di intellettuali comunisti a chiedere un cambiamento di linea e un allontanamento da Mosca. Cosa che poté avvenire per un anno, anticipando quello che poi in Italia e in altri Paesi dell’Occidente sarebbe stato definito l’”eurocomunismo”.

 

Nella primavera del 1967 il comitato centrale del Kpö giunse a definire “utile l’esistenza di partiti di opposizione” e superata la “dittatura del proletariato”. L’anno dopo giunse anche a condannare l’invasione in Cechia delle truppe del Patto di Varsavia. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Franz Muhri, segretario Kpö, e alcuni esponenti del politbüro austriaco furono convocati a Mosca, dove fu fatto loro cambiare idea. Al ritorno in patria l’aggressione a Praga fu definito “un passo necessario per la difesa del socialismo” e nel congresso del partito del 1969 furono messi al bando i “riformatori” e fu scatenata una campagna di denigrazione nei confronti degli “intellettuali revisionisti”.

 

L’ala dissidente del partito, la componente sindacale, l’organizzazione giovanile abbandonarono il partito, dove rimase soltanto la vecchia guardia, sempre più vecchia e fossilizzata. Nel 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, il comitato centrale del Kpö era composto per l’85% da funzionari, cioè da stipendiati del partito. Un tentativo di rinnovamento fu fatto l’anno dopo, quando il congresso elesse al vertice due “riformatori”, Susanne Sohn e Walter Silbermayr. Dopo un anno dovettero gettare anch’essi la spugna, logorati dall’apparato. Anche la targa con dedica “alle vittime dello stalinismo”, che avevano fatto apporre all’ingresso della sede centrale, nella Höchstädtplatz, fu subito rimossa.

 

Prevalse l’ortodossia marxista di sempre, di cui gli esponenti più convinti e rigorosi furono i compagni stiriani, proprio di quella Stiria dove oggi il Kpö miete i suoi più sorprendenti successi. È qui, sulle rive della Mur, che i comunisti austriaci combattono le battaglie di sempre contro l’Unione Europea e contro le alleanze con i partiti della sinistra europea. Duri e puri alla meta, i membri del Kpö stiriano rivendicano “l’abolizione della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione”, come necessaria premessa alla costruzione del socialismo.

 

In questo linguaggio, che appare soltanto nei documenti programmatici del partito, ma non nei discorsi rivolti alla piazza e nelle interviste ai giornali, emerge la più vistosa discrepanza tra ciò che i comunisti stiriani vogliono e ciò che effettivamente fanno, tra un’ideologia che ai più pare ormai anacronistica e fuori dalla realtà e un pragmatismo che ha fatto di loro i gli amministratori locali più attenti ai bisogni e alle difficoltà delle classi più povere e diseredate. È grazie a questo pragmatismo – che un tempo sarebbe stato tacciato di revisionismo socialdemocratico – che il Kpö ha ottenuto oltre il 20% dei voti alle comunali di Graz, diventando il secondo partito e conquistando la poltrona di vicesindaco. Ed è grazie a questo pragmatismo che nei comuni della Stiria il Kpö ha potuto far eleggere 28 consiglieri, una vicesindaca a Trofaiach, un assessore a Leoben, due consiglieri del consiglio regionale.

 

Nella foto, una manifestazione del Partito comunista austriaco nella Maria Theresienplatz, a Vienna, in occasione della festa del 1. Maggio 1970.

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