Sabato 18 Maggio 2024

13.04.24 Flop referendum privilegi ChiesaSi è rivelato un flop il referendum indetto in Austria da una serie di associazioni laiciste contro i privilegi di cui gode la Chiesa cattolica in virtù del Concordato. Alla chiusura dei “seggi” soltanto 56.660 persone avevano sottoscritto il documento con le istanze dei promotori, mentre la legge ne richiede almeno 100.000 affinché il tema debba essere posto all’ordine del giorno e discusso dal Parlamento.

 

Lo abbiamo definito un referendum, ma in realtà si tratta di una consultazione popolare con regole diverse da quelle italiane. Qui non si tratta di esprimere un “sì” o un “no” su una legge o sull’abrogazione di una legge, ma di apporre la propria firma sotto un documento che riassume i termini di una proposta. Si tratta, in buona sostanza, di una manifestazione pubblica di una volontà popolare, espressa non nel segreto di una cabina di voto, ma negli uffici di tutti i comuni e distretti, di fronte a un funzionario pubblico.

 

La dimensione del flop del referendum contro la Chiesa appare evidente dal confronto con altre, precedenti consultazioni. Il record appartiene al referendum del 1982 contro la costruzione di un centro conferenze a Vienna, che raccolse 1.361.562 firme, seguito nel 1997 dal referendum contro le coltivazioni geneticamente modificate (1.225.790 firme). Più indietro nel tempo si ricorda la consultazione del 1975 contro l’aborto (895.665 firme), quella del 1969 per l’introduzione dell’orario settimanale di lavoro di 40 ore (889.659 firme) o quella del 1964 per la riforma della tv pubblica (832.353 firme).

 

Sono una quarantina finora i referendum di questo genere effettuati in Austria e anche quelli su temi meno popolari hanno avuto più successo di quest’ultimo sui privilegi ecclesiastici. Ne citiamo uno di 4 anni fa contro la riduzione degli uffici postali (140.622 firme), uno di 10 anni fa per la chiusura delle centrali nucleari in tutta l’Europa (131.772 firme), uno del 1985 contro l’acquisto di nuovi caccia intercettori per le Forze armate (121.182 firme) o quello del 1989 per l’abolizione del monopolio della tv di Stato (109.197 firme).

 

Le meno di 60 mila firme raccolte nei giorni scorsi dall’ultimo referendum sulla Chiesa può a buon diritto definirsi un flop, anche se un portavoce dei promotori ha voluto parlare comunque di “un successo”, perché grazie ad esso “noi abbiamo aperto una incredibile discussione, che proseguirà nel tempo”. In realtà la modesta risposta all’appello sembrerebbe dimostrare esattamente il contrario, anche se le interpretazioni possono essere diverse.

 

L’Austria ha radici profondamente cristiane e, dopo la controriforma, cattoliche, ma il numero dei praticanti costituisce ormai una minoranza. La scarsa partecipazione si può spiegare con la diffusa convinzione, anche di chi non crede o non frequenta le istituzioni religiose, che la Chiesa svolga comunque un’importante funzione sociale, nell’educazione, nell’assistenza, nella tutela e conservazione del patrimonio storico e artistico di cui è in possesso.

 

Un’altra spiegazione può essere lo scetticismo che anche in Austria, come in Italia, si nutre nei confronti dell’efficacia di queste forme di democrazia diretta. Come in Italia l’esito referendario è stato spesso aggirato. Si pensi, da noi, al finanziamento pubblico ai partiti o all’abolizione del ministero dell’agricoltura. Lo stesso è accaduto anche in Austria. Certo, il centro conferenze di Vienna, contro cui firmarono quasi un milione e mezzo di austriaci, non fu costruito, ma l’aborto non è stato abolito, gli uffici postali sono stati chiusi, l’Europa non è stata privata delle sue centrali nucleari e i caccia intercettori sono stati acquistati lo stesso e proprio il prossimo anno si finirà di pagare le rate del conto, quasi trent’anni dopo il referendum che aveva chiesto di evitarne l’acquisto.

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