Domenica 2 Giugno 2024

L’attentato del 2 novembre 2020 a Vienna – che l’altro ieri ha portato alla condanna di quattro complici dell’attentatore – è un segnale allarmante di dove può portare l’estremismo islamico, anche in un Paese tranquillo come l’Austria, e al tempo stesso dell’incapacità delle forze di polizia austriache nell’affrontare il fenomeno. Spesso in casi analoghi verificatisi in altri Paesi avevamo letto che “le forze dell’ordine erano state avvertite”, che da servizi di intelligence di Paesi amici “erano giunte segnalazioni tempestive”. Ma si era sempre trattato di avvertimenti e di segnalazioni molto generiche e di scarsa utilità. Nell’episodio di tre anni fa, che ha portato all’uccisione di quattro passanti inermi nel cuore di Vienna, le informazioni per prevenire quel fatto di sangue erano invece specifiche e dettagliate. Le ritroviamo nel libro “Kurz, ein Regime”, pubblicato da Peter Pilz due anni fa.

Il libro di Pilz è dedicato all’ex cancelliere Sebastian Kurz e ai subdoli meccanismi messi in moto per dare attuazione al “Projekt Ballhausplatz”, ovvero la conquista della cancelleria federale e la messa fuori gioco degli avversari, anche all’interno del proprio partito. Ma il capitolo 13 del libro è dedicato in parte anche all’attacco terroristico a Vienna. Si intitola proprio così: ”L’attacco a Vienna”.

Scrive Pilz che il giovane attentatore di origini macedoni era ben noto alla Polizia criminale austriaca, all’Ufficio per la tutela della Costituzione (la denominazione completa è “Ufficio per la tutela della Costituzione e la lotta al terrorismo”, ma noi, per semplicità, lo chiameremo d’ora in poi Antiterrorismo) e al Ministero degli Interni.

Il 23 luglio 2020 (quattro mesi prima dell’attentato) il Naka (l’agenzia di Polizia criminale slovacca) aveva inviato una nota alla Polizia criminale di Vienna, tramite l’Europol. Due giorni prima – diceva la nota – due austriaci, “presumibilmente di origini arabe, turche o cecene”, erano entrati in un negozio di armi di Bratislava per acquistare “munizioni del tipo 7,62 per 39 mm per un fucile d’assalto AK 47 (kalaschnikov)”.

Nell’ufficio della Polizia criminale di Vienna gli ufficiali di collegamento con l’Europol ricevono il rapporto slovacco e le foto di entrambi i sospettati. Il materiale viene trasmesso al Servizio informazioni dell’Antiterrorismo, dal quale passa poi a due altri uffici: la sezione “Terrorismus und Extremismus” dell’Antiterrorismo e alla sottosezione dell’Antiterrorismo di Vienna, inquadrata nella Direzione di Polizia del Land. Ai due uffici viene chiesto di identificare gli uomini fotografati a Bratislava dal Naka.

Il problema è subito risolto, perché gli uomini dell’Antiterrorismo conoscono entrambi i personaggi. Uno è quel Fejzulai Kujtim che il 2 novembre successivo sparerà all’impazzata in mezzo alla gente nel centro di Vienna. È conosciuto perché il 25 aprile dell’anno prima era stato condannato a 22 mesi di reclusione quale membro di una organizzazione criminale e di un’associazione terroristica. Insieme con un certo Burak K. nel settembre del 2018 aveva cercato di unirsi alle forze dell’Is in Siria, ma era stato fermato dalla Polizia turca che il 10 gennaio successivo lo aveva rispedito a Vienna.

Il 12 luglio di quell’anno la Corte d’appello aveva confermato la condanna di primo grado del 25 aprile (22 mesi di reclusione), ma, siccome dal giorno dell’arresto nel 2018 aveva ormai scontato due terzi della pena detentiva, la stessa Corte gli aveva concesso la libertà condizionata per tre anni, con l’obbligo di sottoporsi a un corso di “risocializzazione e deradicalizzazione”.

L’auto con cui Kujtim e l’amico si sono recati a Bratislava appartiene alla madre di un altro islamico di origini albanesi, Arijanit F.. Nel suo rapporto al Ministero degli Interni il Naka riferisce che quest’ultimo “è già stato processato per la sua radicalizzazione, frequenta regolarmente una moschea, è un religioso fanatico e ha un atteggiamento favorevole alla jihad”.

I tre – Kujtim, Burak e Arijanit – si incontrano in una moschea di Ottakring (quartiere di Vienna dove la presenza di immigrati è molto alta) aperta soltanto ai membri della comunità islamica. L’Antiterrorismo conosce molto bene quell’ambiente. Sa che è stato frequentato e vi hanno predicato esponenti dell’islamismo più radicale e sa pure che è uno dei più importanti centri di reclutamento di salafisti in Austria. Chi vi mette piede e segue gli insegnamenti dei suoi leader religiosi è un candidato alla guerra santa.

Al Ministero degli Interni a questo punto è chiaro o dovrebbe essere chiaro che: 1) Fejzulai Kujtim aveva intenzione di acquistare munizioni per armare il sul kalaschnikov; 2) possiede verosimilmente un fucile d’assalto; 3) per recarsi a Bratislava per fare shopping di proiettili si era fatto prestare l’auto da un sospettato di terrorismo; 4) fa parte di un gruppo di jihadisti che frequentano una moschea salafista di Vienna; 5) è in viaggio con un’altra persona ancora non identificata.

Il 10 settembre 2020 (meno di due mesi prima dell’attentato) il Ministero degli Interni di Vienna risponde al Naka di Bratislava: “Con tutta probabilità si tratta di Fejzulai Kujtim… Il predetto è noto alla Polizia austriaca in relazione a episodi di terrorismo”. Le autorità slovacche ora sanno che un sospettato di terrorismo rimesso in libertà cerca di armarsi.

A questo punto tutti sono informati del probabile, imminente attentato terroristico, meno che la Procura di Stato, che non ne viene informata. Il Ministero degli Interni tralascia di denunciare il giovane estremista, benché ormai sia chiaro che sta preparandosi ad agire. Fejzulai Kujtim è sempre a piede libero e il 2 novembre può mettere in atto il suo progetto di morte, senza che a nessuno venga in mente di fermarlo per tempo.

* * *

Di fronte a un’inerzia delle forze dell’ordine così sconcertante ci si chiede di chi ne sia la responsabilità. La risposta è indubbiamente di natura politica, perché i vertici del Ministero degli Interni e di tutti i servizi di intelligence che ad esso fanno capo e che abbiamo menzionato – Polizia criminale e Antiterrorismo – sono di nomina politica. In questo caso di nomina dell’Övp, il Partito popolare, che ha guidato il Ministero degli Interni ininterrottamente dal 1986 (primo governo Vranitzky), salvo la breve parentesi del primo governo Kurz, quando a guidare gli uffici della Herrengasse era stato Herbert Kickl, attuale segretario dell’Fpö, il partito dell’estrema destra sovranista.

La responsabilità per un attentato che si poteva evitare e per la morte di quattro cittadini viennesi ammazzati la sera del 2 novembre 2020 non è degli investigatori della polizia, che avevano saputo subito identificare i sospetti e far luce sulle loro relazioni dentro e fuori dalla casa di preghiera di Ottakring. La responsabilità è dei loro capi, che non ne avevano tratto le logiche conclusioni.

I vertici del Ministero degli Interni, guidato a quella data da Karl Nehammer, oggi successore di Kurz alla cancelleria, la notte del 2 novembre sono in fibrillazione, perché sono consapevoli del loro tragico errore di valutazione. Reagiscono come reagisce di solito la polizia in situazioni del genere: moltiplica le perquisizioni a casaccio, dove ci sia un minimo “fumus commissi delicti”, e moltiplica gli arresti, solo alcuni dei quali convalidati poi dall’autorità giudiziaria.

Anche il cancelliere Sebastian Kurz reagisce nel modo che gli è abituale: dare la colpa agli altri. La responsabilità di non aver impedito l’attentato nel cuore di Vienna non è del Ministero degli Interni, che aveva tutte le informazioni per farlo, ma della magistratura, che aveva concesso la libertà provvisoria all’attentatore. Se il giovane attentatore fosse rimasto in carcere – questa l’accusa di Kurz – la strage del 2 novembre non ci sarebbe stata.

Le parole del giovane “Basti”, che scaricano la colpa sulla magistratura, non sono soltanto indegne di un leader incapace di assumersi le proprie responsabilità, ma denotano anche una scarsa competenza con le norme di legge e con la matematica. Kurz finge di non sapere che l’autorità giudiziaria non ha rimesso anticipatamente in libertà Fejzulai Kujtim per buonismo, ma perché così prescrive la legge per i cosiddetti “giovani adulti” (quelli cioè che hanno compiuto 18 anni, ma non ancora superato i 21). Ma Kurz sbaglia anche a far di conto. Se anche Kujtim fosse rimasto in cella a scontare la sua pena fino all’ultimo giorno, sarebbe comunque uscito in tempo per preparare ed eseguire l’attentato nel cuore di Vienna. La scarcerazione anticipata non c’entra.

NELLA FOTO, schieramento di poliziotti davanti all’ingresso dell’aula della Corte di assise di Vienna, per il processo ai complici dell’attentatore del 2 novembre 2020.

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