Sabato 18 Maggio 2024

22.02.09 Gottfried Waldhäusl (FPÖ)Drasenhofen è un piccolo paese del Weinviertel. Si trova all’estremo nord dell’Austria, al confine con la Cechia, e conta poco più di 500 abitanti. Non ne avremmo mai sentito parlare, se qui tre anni fa, attorno a un edificio preesistente, non fossero incominciati i lavori di costruzione di una palizzata di recinzione, protetta in alto da filo spinato, con videocamere di sorveglianza al cancello d’ingresso e cani da guardia a sorvegliare lo spazio scoperto all’interno.

Un nuovo carcere di massima sicurezza, come quelli che conosciamo in Italia (dove peraltro manca il filo spinato e non sono sguinzagliati cani da guardia)? No, un centro di accoglienza, destinato ad accogliere 16 minori non accompagnati richiedenti asilo. La sproporzione tra l’età degli ospiti, tutti provenienti da traumatiche esperienze di guerra e clandestinità, e le misure di sicurezza adottate nei loro confronti è evidente e quando furono segnalate dalla stampa suscitarono un’ondata di indignazione.

Nessuna meraviglia. A disporle era stato Gottfried Waldhäusl (nella foto), assessore regionale all’immigrazione del Land Bassa Austria ed esponente dell’Fpö, il partito dell’estrema destra sovranista. Adeguandosi alla linea della sua area politica in materia di migranti, Waldhäusl voleva fare la faccia feroce verso gli “invasori” e c’era riuscito. Per lui quei ragazzi erano tutti “noti agitatori” e “criminali”.

Poco importa che non sapesse nulla della loro storia e che nessuno di essi fosse perseguito penalmente. Se non erano ancora “kriminelle” – questo il ragionamento di Waldhäusl – di sicuro lo sarebbero diventati. “Se posso impedire che vi sia un altro stupro… Leonie sarebbe ancora in vita”.

Il riferimento dell’assessore era a una ragazza di 13 anni di nome Leonie, della zona di Tulln (siamo sempre in Bassa Austria), che nel giugno dello scorso anno era stata uccisa da quattro afghani, con cui aveva consumato droga e da due dei quali era stata violentata. Dunque filo spinato, videocamere e cani da guardia per evitare altri stupri e altri omicidi.

La cosa sarebbe finita lì, alimentando soltanto un dibattito sulle politiche di accoglienza e di integrazione, se non fosse intervenuta la Procura di Stato, che ha incriminato Gottfried Waldhäusl e una funzionaria del suo assessorato per abuso di potere. L’assessore avrebbe ordinato l’allestimento di quel luogo di soggiorno forzato (subito definito dall’opinione pubblica “l’Alcatraz per richiedenti asilo”) in violazione delle norme a tutela dei minori, della dignità umana, dei profughi, a danno di ragazzi già gravemente traumatizzati dalla loro travagliata storia di migrazione.

Gli accertamenti della Procura hanno richiesto due anni. Waldhäusl e la sua collaboratrice sono stati rinviati a giudizio e il processo a loro carico si sarebbe dovuto svolgere già nello scorso autunno, ma era stato rinviato fin dalla prima udienza per l’emergenza Covid. È ripreso la scorsa settimana, davanti al Tribunale di St. Pölten, e si prevede che debba concludersi entro la fine di aprile.

Esistono grandi incertezze sulla sentenza. Il giudizio spetta a uno “Schöffenfgericht”, che è un collegio costituito da due giudici “laici” (cioè normali cittadini, come nelle nostre Corte d’assise) e presieduto da un giudice togato. Molto dipenderà dalla valutazione che i giudici laici daranno alle misure da “campo di concentramento” volute dall’assessore.

Ma, in attesa che si arrivi alla sentenza, è interessante notare la linea difensiva assunta da Waldhäusl. Che è quella già vista in altre situazioni analoghe: scaricare la colpa sugli altri. Nelle prime dichiarazioni rilasciate in aula, l’assessore dell’estrema destra non ha rivendicato la bontà delle sue scelte, fatte nell’esclusivo interesse della sicurezza pubblica, per proteggere i suoi connazionali dalla minaccia rappresentata dai 16 minorenni.

Al contrario, da un lato ha sostenuto che le misure prese (filo spinato, videocamere, cani da guardia) erano state assunte proprio a tutela della sicurezza dei minori, per proteggerli da minacce esterne. Insomma, non avevano lo scopo di spaventarli e di impedire loro di fuggire, ma di evitare che altri entrassero nel centro di accoglienza a turbare il soggiorno degli ospiti.

Dall’altro lato, ha affermato che prima di disporre l’organizzazione del centro di accoglienza aveva chiesto il parere dei suoi consulenti legali, che gli avevano dato via libera. Per cui, se erano stati commessi degli illeciti, la colpa era loro, non sua. Lui – ha spiegato con umiltà l’assessore – viene da una famiglia di contadini e non se ne intende di queste cose. Per questo si era dovuto affidare a chi ne sapeva di più.

Il suo difensore, l’avv. Manfred Ainedter, ha dato veste giuridica ai ragionamenti del suo assistito. “L’abuso di potere – ha spiegato – presuppone non soltanto il proposito di commetterlo (il dolo), ma anche la consapevolezza che ciò che si commette è reato”. Nel caso in esame ciò non è accaduto e quindi il reato non è stato commesso. Se anche ciò che è avvenuto va contro la legge, Waldhäusel non era al corrente che fosse proibito. Ergo, l’assessore che ha chiuso ingiustamente in un lager 16 ragazzi è innocente.

Sul banco degli imputati siede anche una collaboratrice dell’assessore, accusata di concorso nello stesso reato, ma anche di falso. La donna, quando aveva appreso delle indagini in corso da parte della Procura, aveva cercato di minimizzare il suo ruolo nella vicenda. A questo scopo, aveva falsificato una mail, in modo da scaricare le responsabilità su un collega, che invece non c’entrava per niente. Anche lei aveva seguito la linea di difesa del suo capo: scaricare la colpa sugli altri.

Ma forse c’è un giudice a Berlino. E può darsi che ce ne sia uno anche al Tribunale di St. Pölten.

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