L’Austria è un Paese alpino, lo sappiano tutti. Più del 70% del suo territorio è montuoso ed è probabilmente per questo che l’inno nazionale ne fa menzione nel suo primo verso: “Land der Bergen…”, “Terra di monti…”. Un Paese prevalentemente alpino è anche un Paese di alpinisti. Alcuni di essi hanno contribuito a scrivere la storia dell’alpinismo mondiale.
Sono così tanti, che un’associazione non basta a raccoglierli tutti, come il Club alpino italiano. Il più importante, naturalmente, è l’Österreichischer Alpenverein, che più corrisponde al sodalizio italiano. Ma poi ci sono il Naturfreunde (Amici della natura), l’Alpenclub, l’Österreichischer Touristenklub, l’Österreichischer Touristenverein e altri ancora, riuniti tutti in una federazione nazionale.
Ognuno ha la sua storia, le sue finalità non sempre coincidenti, perfino un suo orientamento politico e va per la sua strada. Ma quando le cose si fanno serie si esprimono a una sola voce attraverso la loro federazione. Lo hanno fatto in questi giorni, per bocca del loro presidente Gerald Dunkel Schwarzenberger, che ha lanciato l’allarme: “I nostri rifugi e i nostri sentieri si sbriciolano. Letteralmente!”.
Alcune associazioni, come Öav (Österreichischer Alpenverein), sono proprietarie di molti rifugi, che accudiscono e gestiscono; altre ne hanno solo pochi e solo in alcuni Länder. L’elitario Alpenclub, che raccoglie la crema dell’alpinismo austriaco, come il nostro Club alpino accademico, ne ha uno solo, che però è il più importante e posto alla quota più elevata: l’Erherzog Johann Hütte, situato sull’Adlersruhe, sul Grossglockner.
Perché lamentano il progressivo degrado dei loro rifugi? Perché sono in maggior parte immobili vecchi (alcuni con più di 150 anni), esposti alle intemperie ad alta quota e ora anche allo scioglimento del permafrost, che rende il terreno instabile. In tutto sono 272 e per risanarli servirebbero 95 milioni, da impiegare in lavori urgenti nei prossimi 5 anni. Ma questi soldi non ci sono.
Lo Stato eroga annualmente un contributo di 6 milioni, rimasto invariato dal 2013, benché i costi siano lievitati del 42%. Con quei soldi si può provvedere soltanto alle emergenze, pur potendo contare sul lavoro gratuito di molti volontari (un migliaio soltanto nell’Öav). La conseguenza è che dove gli immobili non sono più idonei ad alloggiare gli alpinisti o addirittura rischiano il crollo, vengono chiusi. Ne sono stati chiusi ormai tre o quattro ogni anno.
Nell’appello lanciato al governo, la Federazione delle associazioni alpinistiche ha messo in evidenza le conseguenze di tali chiusure, che si ripercuotono sul turismo delle località di valle. Quando un rifugio chiude, diventa impossibile la frequentazione di una certa area montuosa e si interrompono i collegamenti tra un rifugio e l’altro.
Ne stiamo facendo esperienza in Friuli, dove ormai da alcuni anni sono chiusi i rifugi Lambertenghi-Romanin, al passo Volaia, e Guido Corsi, sotto in Jof Fuart, entrambi in attesa di ristrutturazione. Per gli alpinisti è come se quelle due zone fossero state cancellate dalla carta geografica, perché prive di un punto di appoggio. Ad esse se n’è aggiunta quest’anno una terza, quella di Monte Croce Carnico, non dovuta a chiusura di rifugi ma al crollo di rocce che ha interrotto la strada di salita al passo dal versante italiano.
Per i sodalizi alpini austriaci la manutenzione dei rifugi non è il solo problema. C’è anche quello dei sentieri. Sono circa 50.000 chilometri di percorsi, a cui provvedono i volontari. Ma le braccia gratis non bastano. Servono materiali, attrezzi, trasporti possibili spesso soltanto con elicottero, che hanno costi che i club possono permettersi solo in parte. Dove non possono, si decide a malincuore la chiusura del sentiero, per evitare che qualcuno si faccia male.
NELLA FOTO, il rifugio Seethal, nel gruppo del Dachstein, il cui recente risanamento ha comportato costi per 2,5 milioni.
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